IL “PIZZOLANO” CARD. FEROCI, “UN SACERDOTE NON È VERO SE NON È UMANO”

Il neo porporato nato a Pizzoli (AQ) spiega a vaticanews la sua visione di un uomo consacrato a Dio: la prima qualità è quella di servire la Chiesa immersi nella vita della gente. In questo tempo di Covid, dice, dobbiamo saper condividere il dolore di chi è in lutto: “Se non ci rendiamo conto che quelle persone stanno piangendo perché dobbiamo fare il cenone di Natale, siamo fuori strada”.
Ha pensato ad uno scherzo quando il 25 ottobre ha saputo che sarebbe stato creato cardinale. “Ci ho creduto solo dopo aver visto il video dell’Angelus in cui il Papa ha annunciato il Concistoro del 28 novembre”, ha affermato il cardinale Enrico Feroci all’indomani della inaspettata notizia. Un parroco, già alla guida della Caritas della Diocesi di Roma e rettore, dal 2018, del Santuario del Divino Amore. Nato il 27 agosto 1940 a Pizzoli (L’Aquila), è stato ordinato sacerdote il 13 marzo 1965, non ancora venticinquenne. Assistente fino al 1966 al Pontificio Seminario Romano Minore, dal 1966 al 1968 al Maggiore, per poi tornare al Seminario Minore in qualità di vicerettore, carica ricoperta fino 1976. Il suo ministero sacerdotale è proseguito nella parrocchia di San Frumenzio prima come vicario parrocchiale (1976-1980) e poi come parroco, per 24 anni. Il 1° luglio 2004 è stato nominato parroco a Sant’Ippolito e nel 2009 direttore della Caritas diocesana di Roma, che ha guidato fino al 2018, anno in cui è divenuto Rettore del Santuario del Divino Amore. Ha ricevuto la consacrazione episcopale lo scorso 15 novembre. Nell’intervista a Vatican News, il cardinale Feroci si sofferma anche su ciò che è essenziale per i cardinali, così come per i futuri sacerdoti: “Essere uomini veri, autentici ed avere accanto ai pilastri della spiritualità quell’umanità che permette di portare Cristo nella realtà”. LEGGI ANCHE25/06/2020
Un direttore della Caritas e parroco del Divino Amore – con un’esperienza nelle parrocchie di San Frumenzio e a Sant’Ippolito – conosce Roma e i romani come pochi altri. Qual è oggi lo stato di salute della comunità cristiana della diocesi del Papa?
R. – La prima risposta che mi viene in mente è relativa al lavoro che il cardinale vicario Angelo De Donatis sta facendo per centrare l’attenzione sulla realtà etica e spirituale di ogni cristiano, delle comunità parrocchiali e dei sacerdoti. Tutto ciò è stato avviato non dandoci grandi indicazioni o vasti programmi, ma chiedendo a ciascuno di noi di interrogarci, come sta facendo il Papa, sul nostro essere discepoli di Cristo. Questo vuol dire responsabilizzare le comunità e le singole persone.
Sabato Francesco ha ricordato a tutti voi, neo cardinali, l’importanza di essere “pastori vicino al popolo” e non soltanto eminenze, altrimenti si sarà fuori strada. Quali, dunque, gli strumenti per seguire la via indicata dal Papa?
R. – Mi sembra che il Papa sia in sintonia perfetta con l’atteggiamento di Cristo. Gesù, lo leggiamo nel Vangelo, ha derogato una volta alle osservanze del sabato, perché c’erano persone che avevano bisogno, in grandi difficoltà. Francesco ci sta chiedendo di realizzare dei segni visibili, perché quello che Gesù ci ha detto, il suo messaggio, diventi spinta perché le persone possano seguirlo ed esserne discepoli. Il Papa ci invita a non parlare, ma ad agire. I segni indicano la strada. Questo il Papa me lo disse anche la prima volta che lo incontrai, nel 2013, ricordando le parole pronunciate in tal senso anche da San Francesco d’Assisi, quell’invito ad “andare ad evangelizzare, e se necessario ad utilizzare pure le parole”. Quello che ci sta chiedendo il Papa è la verità e l’autenticità del nostro agire e del nostro operare, che deve corrispondere al nostro dire. Un dire che non porta ad essere è ciò che Papa Francesco non vuole, non lo vuole il Vangelo e non lo vuole Gesù.LEGGI ANCHE29/11/2020
Domenica il Papa, celebrando la Messa con i nuovi cardinali nella Basilica vaticana, ha chiesto di essere vigili per accorgerci della presenza di Cristo. “Rischiamo – ha detto Francesco – di perdere l’essenziale”. In un tempo così difficile ed incerto, come fare a non perdere l’essenziale?
R. – Dicendo questo, Papa Francesco mi sembra sia tornato alla parabola del Buon Samaritano, che si è fermato, ha visto e ha toccato con mano. In questi giorni del Concistoro, in cui è avvenuto qualcosa di così bello e significativo per le nostre vite, ho pensato anche all’importanza di saper piangere con chi in questi mesi vive grandi sofferenze, con queste famiglie e con il mondo intero. Noi dobbiamo essere una cassa di risonanza delle difficoltà che la gente sta vivendo, altrimenti saremo avulsi e lontani e finiremo col presentare, sì, una religione, ma non il discepolato di Cristo. Egli non è stato il grande predicatore, ma Colui che ha messo nel cuore degli uomini la libertà di dire che siamo Figli di Dio, ma anche coloro che ci circondano lo sono e hanno bisogno di ascoltare l’amore e la misericordia del Padre nei loro confronti. Credo che questo siamo chiamati a fare: essere vigili e attenti, non passare oltre, ma fermarsi ad ascoltare chi è ferito dalla pandemia, dalle difficoltà lavorative, da quelle familiari, dal dolore della perdita dei propri cari. L’altro giorno in Italia, e non un giorno solo è accaduto, ci sono state 800 persone decedute a causa del coronavirus, 800 famiglie che hanno pianto. Se non ci rendiamo conto che quelle persone stanno piangendo perché dobbiamo fare il cenone di Natale, credo che siamo fuori strada. Mi sembra che il Papa ci stia dicendo questo. Sono giusti i rapporti interpersonali e familiari, ma è giusto anche avere la capacità di rendersi conto del dolore e della sofferenza che sta vivendo il mondo in questo momento.